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24/08/2016 Davide Reina

Il bisogno รจ padre delle invenzioni

A proposito del saper innovare

Il proverbio dice una cosa molto semplice: l’innovazione è un’invenzione utile, perché soddisfa dei bisogni generati da problemi concreti. Come tale, è un processo che si fonda sullo spirito di osservazione e sull’esperienza diretta di un problema. L’inventore del trolley, Robert Plath, era un pilota di linea. L’inventore del container (l’innovazione che ha generato il maggiore contributo di valore sul PIL mondiale nella seconda metà del XX secolo), Malcom McLean, era un autotrasportatore. L’inventore dell’ago per iniezioni indolore e fondatore della Chicco, Pietro Catelli, vendeva siringhe e aghi per iniezioni.

L’innovazione è una soluzione a un problema. Tutto qui. Anni e anni di teorie, migliaia di pagine scritte, centinaia di corsi, ci hanno fatto perdere di vista la semplicità della genesi di quella che tutte le imprese ricercano disperatamente quasi come fosse una sorta di pietra rara e preziosa. Certo, occorre ricordarsi che l’innovazione non si trova in ufficio, ma fuori da esso. Ed è necessario ricordarsi che l’innovazione si coglie individuando i problemi che l’utilizzo di un prodotto genera, e avendo il coraggio di realizzare tempestivamente una soluzione a quei problemi. La maggior parte delle aziende invece ha manager che conoscono ogni dettaglio del prodotto prima del suo utilizzo, ma che ignorano ogni dettaglio di quel prodotto durante il suo utilizzo.

Per chiarire questo concetto, è utile raccontare la storia che segue. Anni fa, mi capitò di domandare ai manager di un’importante impresa produttrice di trattori quante volte avessero guidato uno dei loro prodotti negli ultimi dodici mesi. Su circa una trentina di manager, alzarono la mano in quattro. A questi domandai quanti di loro avessero guidato il trattore nella reale situazione d’uso (in un campo o su per una collina) e non nel piazzale dello stabilimento. Nessuno alzò la mano. Ora è evidente come in un’impresa di questo tipo manchi la capacità di innovazione, perché manca la capacità di osservazione che deriva dall’avere utilizzato il prodotto. Senza questa capacità non si può innovare, perché non si colgono i bisogni sui quali, come ci ricorda il proverbio, si fondano le invenzioni.

C’è poi un secondo grande problema che impedisce alle imprese di essere innovative: il falso mito dell’immaginazione quale elemento indispensabile, e determinante, di ogni innovazione che si rispetti. Anche questo, costruito ad arte da tutta una serie di teorie e libri spesso superficiali, confusionari, privi di reale spessore culturale. Che però piacciono perché sono «comodi» e perché raccontano la favola di un processo di generazione dell’innovazione facile e divertente. L’innovazione vera invece non è comoda, ma faticosa. Perché non richiede immaginazione, bensì immedesimazione. E quella te la costruisci solo se il tuo trattore, almeno una volta l’anno, lo guidi su e giù per un campo.

Veniamo poi al terzo grande mito, anch’esso falso, prodotto dalla sconfinata letteratura manageriale sul tema: quello dell’innovazione cosiddetta disruptive (o breakthrough, o rivoluzionaria), che si contrappone alla cosiddetta innovazione incrementale. La teoria in questione è di difficile applicazione nella pratica perché distingue le due tipologie di innovazione, quella rivoluzionaria e quella incrementale, in ragione del loro impatto ex post. Grande e stravolgente nel caso dell’innovazione rivoluzionaria, tutto sommato modesto nel caso dell’innovazione incrementale. Peccato però che un imprenditore non se ne faccia nulla del sapere, ex post, come è andata una sua innovazione. All’imprenditore interessa poter avere una teoria, o un principio empirico derivato dall’esperienza concreta, che lo aiuti nel sapere cosa cercare di costruire (come innovazione) ex ante.

Rispetto a questa esigenza, la mia esperienza sul campo mi ha portato a sviluppare un molto più modesto, ma semplice, principio empirico fondato su tre elementi. Primo: il valore di un’innovazione dipende dal suo grado di utilità. Più essa è utile, più verrà apprezzata dalle persone. Secondo: il potenziale di un’innovazione dipende dal suo spettro applicativo. Più ampio è lo spettro, maggiore sarà il suo potenziale. Terzo: il grado di utilità dell’innovazione moltiplicato per il suo spettro applicativo determina l’impatto.

La lampadina inventata da Edison ne è un esempio, mi si passi il gioco di parole, illuminante. Essa risolveva per sempre (non per mezz’ora come faceva una candela) il problema dell’illuminazione, soddisfacendo il bisogno di vedere anche in assenza di luce diurna. C’era, quindi, una differenza enorme in termini di grado di utilità tra la candela e la lampadina. Quanto allo spettro delle possibili applicazioni, evidentemente esso era vastissimo: dalla mera lettura di un libro a casa la sera, al lavoro in ufficio nei mesi invernali, al lavoro in fabbrica di notte, alle operazioni negli ospedali, e così via.

Ma lo stesso concetto si potrebbe applicare anche a un’innovazione tutto sommato recente, come quella della fibra di carbonio. Un materiale da subito di grande utilità per il mondo dell’automobile, perché in grado di ridurre fortemente il peso del veicolo a parità di sicurezza, consentendo superiori performance e minori consumi – ma il cui utilizzo è stato per quasi due decenni limitato a una nicchia di clienti rappresentata dalle scuderie di Formula 1 e Formula Indy, a causa dei costi esorbitanti di produzione dei pezzi. Poi, circa cinque anni or sono, la svolta, rappresentata dalla combinazione del carbonio con la plastica, per realizzare un «carbon fiber» altrettanto leggero ma molto più lavorabile e, soprattutto, molto meno costoso da produrre. Di qui (dalla diminuzione di costo) l’ampiamento dello spettro delle possibili applicazioni con l’impiego del carbon fiber anche per automobili di serie, trattori, camion.

Questa storia insegna che un’innovazione molto utile, ma con spettro applicativo molto limitato, rimane una nicchia. Ma se quella stessa innovazione, per varie ragioni, vede aumentare il proprio spettro applicativo, allora essa conoscerà grande diffusione e avrà un vero e proprio «salto di potenziale» in termini di mercati e clienti. Se volessimo rappresentare questo concetto in modo geometrico, potremmo impiegare l’immagine di un rettangolo, la cui base è il grado di utilità dell’innovazione e la cui altezza è lo spettro delle sue possibili applicazioni (Figura 1).

Figura 1. Il rettangolo dell’innovazione

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Ovviamente, il grado di utilità è condizione necessaria. Senza utilità non si va da nessuna parte. Nessuno paga per qualcosa che non è utile, o non è abbastanza utile. E naturalmente, l’innovazione di massimo impatto è quella che corrisponde a un rettangolo con massima base (grado di utilità) e massima altezza (spettro applicativo). L’area del rettangolo corrisponde quindi all’impatto dell’innovazione. Le innovazioni che disegnano rettangoli molto grandi corrispondono alle general purpose technologies (GPT). Quelle che uno storico dell’economia, Gavin Wright, appunto definisce come «Idee o tecniche radicalmente nuove che hanno un impatto potenzialmente importante in tanti settori dell’economia». Nella definizione di Wright l’impatto è imprescindibilmente (e correttamente) legato all’aspetto economico. Che deve essere grande. In termini di incremento di produttività e/o di nuovi mercati generati dall’innovazione. Nel pensiero convenzionale che invece spesso caratterizza l’innovazione, il grande equivoco è il confondere l’impatto con l’aspetto tecnologico: più c’è avanzamento tecnico, più c’è impatto. Falso: posso avere grande avanzamento tecnico, ma senza utilità. E allora avrò impatto basso o, addirittura, nullo. E posso avere invece grande utilità senza avere, di fatto, avanzamento tecnico. Come insegna l’innovazione del container che, in pratica, è l’idea di dare alla scatola per trasportare le cose la stessa dimensione, ovunque. O come insegna il web stesso. Che di fatto è una combinazione di elementi pre-esistenti: la vecchia rete di trasmissione TCP/IP di internet; il linguaggio HTML; il browser. E che cosa hanno in comune il container e il web? Grande utilità combinata con grande spettro applicativo. Come dice il proverbio: il bisogno è padre delle invenzioni.


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